Io c’ero, e a cosa è servito tutto questo?
Io c’ero nei cortei studenteschi, quando l’aria sapeva di rabbia e di speranza, e i nostri corpi giovani marcavano il selciato della città come un’onda scomposta ma compatta, come un cuore battente.
C’ero a prendere le botte per una scuola più giusta, per un sapere che non fosse privilegio ma diritto, per un’aula dove ogni voce, anche la più incerta, avesse dignità. Le manganellate cadevano come pioggia, senza distinzione. Erano gli anni in cui imparavi presto che la democrazia scricchiola quando la pratichi davvero.
C’ero a manifestare per il divorzio, con le donne e gli uomini che volevano semplicemente scegliere, vivere liberi.
C’ero per l’aborto, nei cortei in cui le grida erano più forti delle lacrime, in cui si parlava del corpo come territorio inviolabile. E anche lì, ancora, le botte. Gli sputi, le accuse, il disprezzo. Ma noi credevamo. Dio, se ci credevamo.
C’ero contro il nucleare, con le mani sporche di vernice e i cartelli alzati come scudi fragili. Gridavamo contro una minaccia invisibile, contro un’avidità silenziosa. Ci prendevano per ingenui, per pazzi, per sognatori. E forse lo eravamo.
Ma in quelle piazze c’era una forma di verità che oggi non riesco più a trovare.
C’ero con la Pantera, a occupare l’università come fosse casa, come fosse terra da difendere. Le notti a parlare, a leggere, a discutere, a sperare. E i giorni a resistere, a fronteggiare chi voleva spegnere la miccia con la forza.
C’ero a fare a botte con i fascisti, con chi portava l’odio nelle vene e il manganello nel cuore.
Noi avevamo solo i libri, le parole, e la voglia di non cedere e resistere.
E poi, Genova. Il ricordo più duro, più sporco, più impastato di sangue e lacrime. Genova che non si cancella. Genova che si infila nei sogni e li avvelena.
C’ero anche lì, in quel carnaio che chiamavano ordine pubblico.
C’ero a manifestare contro i potenti della terra, quelli che decidono senza conoscere, che firmano condanne con mani pulite.
C’ero, e le botte non erano più solo fisiche. Ci hanno tolto la voce, ci hanno macchiato di colpa, ci hanno lasciati soli.
Io ci sono stato sempre.
Sempre lì, sempre sotto. A prendere le botte. A camminare avanti anche quando era più facile voltarsi.
E oggi?
Oggi mi chiedo a cosa sia servito tutto questo.
A cosa siano servite le cicatrici, le paure che non se ne vanno, le delusioni ingoiate a denti stretti.
Me lo chiedo, sì. Ma non voglio trovare risposte.
No. Proprio per nulla.
Perché le risposte, a volte, fanno più male delle botte.
©emirus
#PERprogettoeditorialeresistente
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